Ordine globale in transizione: il disimpegno USA e l’avanzata silenziosa della Cina

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si sono fatti carico del nuovo ordine globale, modellandone le regole secondo i propri interessi e valori. Durante la Guerra Fredda, la loro leadership non si è espressa solo in termini militari o economici, ma soprattutto in chiave normativa: Washington ha costruito un sistema internazionale basato su istituzioni multilaterali, regole condivise e promozione della democrazia. Ma come insegnano diverse teorie dell’egemonia, mantenere un ordine è oneroso. Oggi, l’egemone inizia a cedere sotto il peso di una responsabilità globale che ha permesso ad altri Stati di crescere e svilupparsi a ritmi sempre più rapidi, sfruttando i benefici di un sistema che non devono mantenere. Il risultato è una strategia di disimpegno da parte degli Stati Uniti, necessaria per non favorire ulteriormente l’ascesa delle potenze emergenti, ma che finisce per indebolire le stesse istituzioni multilaterali costruite sotto guida americana.

Negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno progressivamente ridotto il loro coinvolgimento nelle istituzioni multilaterali e nella leadership globale. Il disimpegno si è manifestato in forme sempre più evidenti, a partire dai ritiri formali da organi chiave come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il Consiglio ONU per i Diritti Umani e il Global Compact on Migration. Già da tempo erano visibili i segnali di fatica da parte americana, soprattutto nel contesto NATO. Il famoso 2% del PIL, che gli Stati membri dell’Alleanza sono chiamati a destinare alla spesa militare, è diventato il simbolo di una frustrazione crescente per gli USA, che da anni denunciano lo squilibrio nei costi sostenuti per la sicurezza collettiva. Con l’approccio “America First”, Trump ha trasformato quel malcontento in strategia, rendendo la protezione americana da bene garantito a servizio subordinato a vantaggi reciproci, in un’ottica dichiaratamente “transattiva”. Al recente World Economic Forum di Davos, il presidente ha addirittura rilanciato chiedendo ai Paesi NATO di portare la spesa militare al 5% del PIL, superando di gran lunga l’obiettivo del 2% fissato nel 2014. Quando Trump ha messo in discussione apertamente l’impegno automatico a difendere gli alleati a qualunque prezzo senza una loro reale ed equa condivisione dei costi, è stato evidente che l’era dell’ombrello americano gratuito stia finendo.

A tutto questo si è aggiunto il blocco del sistema di risoluzione delle controversie dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), il taglio massiccio dei finanziamenti a molte agenzie ONU, e una chiara preferenza per politiche unilaterali e protezionistiche, spesso in aperta violazione delle regole multilaterali. Nel 2017 Washington si è ritirata dall’UNESCO e poi è stata la volta dell’Accordo di Parigi. Le giustificazioni sono sempre le stesse: l’istituzione è inefficiente, corrotta, o non rappresenta più gli interessi americani. Eppure, quegli interessi coincidevano un tempo con la promozione della democrazia, l’espansione del libero mercato e la creazione di istituzioni sovranazionali capaci di consolidare reti di interdipendenza. Obiettivi che rappresentano i pilastri delle teorie liberali delle Relazioni Internazionali, secondo cui una maggiore cooperazione abbassa le probabilità di conflitto e garantisce una pace duratura.

Oggi, nella politica estera statunitense, quegli elementi sembrano svaniti. Al loro posto c’è una chiusura difensiva, motivata dal timore dell’ascesa cinese e, più in generale, della crescente influenza degli attori che hanno sfruttato le opportunità offerte dall’ordine liberale. I dazi, le restrizioni agli studenti stranieri nelle università americane, le misure che minano l’interdipendenza economica sono solo i segnali più visibili di cambiamento più ampio. E il fatto che molte di queste azioni vengano contestate e ritenute illecite da alcuni tribunali federali dimostra quanto gli Stati Uniti stiano minando le stesse fondamenta dell’ordine globale che hanno impiegato anni a costruire e disciplinare rigorosamente.

Ancora più preoccupante è il fatto che “Project 2025”, un piano strategico elaborato da ambienti conservatori negli Stati Uniti, preveda addirittura la possibilità di ritiri futuri da istituzioni chiave come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM), di cui gli stessi USA sono i maggiori azionisti e principali finanziatori. Questa posizione è motivata dalla percezione che FMI e BM agiscano da “intermediari costosi” e che le loro politiche non siano più allineate agli interessi nazionali statunitensi. Anche se nulla è stato ancora formalizzato, ciò che sfugge all’amministrazione Trump è una verità semplice: il vuoto geopolitico non esiste. Quando un attore abbandona il ruolo di garante di regole e fornitore di fondi e servizi a livello globale, qualcun altro è pronto a occuparne lo spazio. E oggi, quel qualcun altro è sempre più spesso la Cina.

Pechino ha capito che per influenzare il mondo non servono portaerei e carri armati, ma bastano accordi strategici, investimenti mirati e un’efficace narrativa. Con la Belt and Road Initiative (o Nuova Via della Seta), la Cina sta finanziando infrastrutture in Asia, Africa ed Europa, toccando in particolare i Paesi situati lungo le antiche rotte commerciali euroasiatiche. Si tratta di una strategia ad ampio spettro i cui maggiori investimenti riguardano trasporti e logistica, ma che spazia dalle infrastrutture all’energia, l’industria, la tecnologia e la finanza. L’obiettivo è espandere il commercio cinese, aumentare gli sbocchi internazionali per le sue produzioni, incentivare i flussi di investimento e consolidare l’autonomia strategica della Cina.

Contestualmente alla Belt and Road Initiative, Pechino promuove istituzioni alternative come la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), una banca multilaterale di sviluppo fondata nel 2014 di cui la Cina è il principale socio. L’AIIB ha lo scopo dichiarato di migliorare i risultati economici e sociali in Asia attraverso il finanziamento di progetti infrastrutturali nella regione. Il credito viene offerto senza condizionalità politiche, in contrasto con l’approccio delle istituzioni occidentali, in modo da trasformare la cooperazione economica in leva geopolitica, costruendo dipendenze stabili e durature. In particolare, la Cina sta proponendo un modello di governance globale basato sulla sovranità statale e sulla non interferenza, un’alternativa silenziosa ma decisa al paradigma occidentale fondato sull’enfasi/esportazione di su diritti umani e democrazia.

La sfida da militare o tecnologica diventa quindi normativa. Perché se l’Occidente si autoesclude dal gioco multilaterale, non potrà poi sorprendersi quando altri approfitteranno del vuoto lasciato per riscrivere le regole e il mondo inizierà a conformarsi a una nuova struttura. La domanda, allora, non è più se l’ordine globale stia cambiando, ma chi lo sta cambiando, con quali mezzi e secondo quali principi. Perché quando l’egemone si stanca, qualcun altro si siede al tavolo e inizia a ridefinire il gioco seguendo nuovi valori e interessi.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi